Patrizio Silvi Antonini
Le metamorfosi della coscienza
C’è una fotografia di Man Ray, del 1922, che ritrae nuda la modella e musa di artisti Kiki de Montparnasse. Il corpo, teso all’indietro, è inquadrato leggermente di scorcio, enfatizzando la curva piena delle cosce. Un panneggio avvolge le gambe dal ginocchio in giù, dando alla figura un vago e inquietante aspetto di amputazione. La prima cosa che viene alla mente guardando le fotografie di Silvi Antonini è l’appassionato studio sul corpo – soprattutto sul corpo femminile – portato avanti da Man Ray per tutta la vita. I dettagli anatomici di scatti come Le cou (il collo), dove la figura diventa pura forma nello spazio; i celebri primissimi piani degli occhi; capolavori di sottile erotismo come La prière (la preghiera), primo piano di natiche, mani e piedi. Ma anche le contaminazioni tra corpo e oggetti, come Profil et oeuf (profilo e uovo), perfetto trionfo di equilibri formali. Il lavoro di Silvi Antonini parte da lì. E va oltre. Le sue donne manipolate, deformate, rese irriconoscibili mentre sembrano essere inghiottite in gorghi spiraliformi di materia, si trasformano in suggestioni. Perdono consistenza per diventare allusioni, memorie di umanità che vanno lentamente trasformandosi in qualcosa di fluido e primordiale. Oppure del corpo l’artista sceglie una sezione – le gambe, i piedi, il tronco, a volte solo un dettaglio del viso – per enfatizzarla, enfiarla, riempirla di una materia vivida e pulsante, superumana, e lasciare il resto in secondo piano, quasi arto atrofizzato e ormai inutile alla nuova specie. Mentre il ventaglio dei capelli si apre nello spazio a creare fantastici animali marini, o il piumaggio di un sontuoso uccello alieno. A volte è il vuoto bianco a dominare lo spazio e la figura appare lontana, sperduta, appena riconoscibile, tutta concentrata in una battaglia strenua per non essere ingoiata dal nulla. Altre volte il gesto curvilineo, bloccato nell’immagine, è il passo di un’antichissima danza propiziatoria, inno all’amore e alla fertilità, oppure il lento sbocciare di un fiore. E la sensazione di un movimento fluido (verrebbe da dire liquido) è sottolineata dalla scelta di accorpare alcuni scatti in trittici, facendoli apparire quasi dei frame da video. Ci sono immagini in cui le forme perfette e armoniose della modella riescono a penetrare la deformazione, a salvarsi, in qualche modo, per arrivare fino allo spettatore. E restano lì, come una nostalgia. E allora la sensazione è quella di una velata critica sociale – appena sottotraccia – al sistema della bellezza a tutti i costi, una voluta e crudele protesta contro la legge dell’apparire. Ma la sensazione dominante davanti ai lavori dell’artista è quella di una sorta di idolatria del corpo femminile in quanto tale. Della morbidezza e dell’armonia capaci di farsi danza di forme. Declinati in pastosi toni seppiati, ammantati di un’atmosfera senza tempo, i dettagli anatomici più segreti si ingrandiscono fino a occupare tutto lo spazio, facendosi irriconoscibili, illeggibili, e comunicando un erotismo appena sussurrato, un turbamento spiazzante. E poi, qualche volta, il dettaglio anatomico appare in seconda battuta, come un ospite, e lo spazio è dominato da una materia ambigua che sembra terra, natura, forza vegetale, ma anche potenza aliena, lunare. Come nei grovigli di radici che fanno subito pensare al buco nel quale cadde Alice per entrare al Paese delle Meraviglie. O come nel gorgo di terra e muschio che si apre all’improvviso – terribile e ipnotico – e sembra voler inghiottire lo spettatore. Sembra proprio di avvertire nelle narici l’odore pungente e umido del sottobosco, delizioso e vagamente marcescente, e solo le due mani femminili che spuntano dai lati regalano una minima speranza di salvezza.
Alessandra Redaelli